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Carestia e genocidio a Gaza: come stiamo normalizzando l’impensabile

di Francesco Checchi*

Un giorno, in futuro, quando finalmente guarderemo indietro, sarà questo il mese in cui la campagna di Israele a Gaza ha varcato il limite ed è passata da indubbiamente atroce a qualcosa di molto più estremo? Solo per citare alcuni semplici segnali di una svolta a lunga temuta e ormai certa: persino i giornalisti, gli operatori delle ONG e il personale delle Nazioni Unite (di certo un settore della popolazione relativamente privilegiato) fanno fatica a racimolare cibo a sufficienza per un solo pasto al giorno, non riescono a trovare nulla da comprare anche se hanno denaro contante, riescono a malapena ad alzarsi per andare ad aiutare tutti gli altri. Sappiamo già che molti abitanti di Gaza stanno morendo di fame. Ogni giorno migliaia di loro tentano di attraversare il territorio militarizzato per mettersi in fila sotto il sole cocente in uno dei soli quattro punti di distribuzione, dove in qualsiasi momento, appollaiati su torrette di guardia, uomini armati e mascherati probabilmente apriranno il fuoco su di loro. Oltre 1000 persone sono già state uccise in questo modo dalla fine di maggio. Il rischio è chiaramente estremo e la disponibilità di razioni alimentari sufficienti è del tutto imprevedibile. Eppure i più piccoli stanno perdendo peso. Chi mandiamo oggi? Papà, mamma, lo zio ferito in precedenza? Di chi possiamo permetterci di perdere la vita?

Tra le atrocità che costellano il racconto di Gaza, è così che appare un genocidio? Una delle prime cose che si scopre quando si inizia a fare ricerche sulla Palestina, come abbiamo fatto io e i miei colleghi dopo il 7 ottobre 2023, è che questo è un conflitto in cui anche il linguaggio è teatro di intense operazioni. Tra i vari termini controversi, genocidio è quello che finora ho esitato a utilizzare, soprattutto perché si tratta di un concetto giuridico specifico, la cui applicazione implica un onere probatorio (in particolare sull'intenzionalità) che pochi al di fuori di un tribunale specializzato possono realisticamente fornire. Il suo uso improprio può creare più confusione che chiarezza, poiché suggerisce una scelta binaria senza vie di mezzo significative (cioè una lunga lista di crimini di guerra) e in questo caso invita alla controargomentazione illogica secondo cui definire le operazioni di Israele come genocidio è antisemita. Per essere chiari, gli ebrei sono esseri umani e quindi capaci del più ampio spettro di criminalità come tutti noi; e il fatto che si possa parlare di genocidio non implica che tutti gli ebrei israeliani debbano esserne ritenuti responsabili.

Denunciare o riconoscere l'esistenza di un genocidio in corso cambia ciò che dovrebbe essere fatto nell'immediato? All'interno di Gaza stessa, probabilmente no. È tuttavia significativo che eminenti studiosi, tra cui accademici israeliani che studiano l'Olocausto, abbiano iniziato a descrivere l'azione di Israele come genocida. Con tutta l'umiltà che l'incompetenza in materia impone, sembra probabile, anche da un punto di vista profano, che i processi giudiziari giungeranno alla stessa conclusione. Ciò implica che anche il Regno Unito e gli altri paesi occidentali hanno obblighi giuridici ai sensi della convenzione sul genocidio esistente.

È significativo non solo il fatto che la maggior parte dei politici al governo di questi paesi (e, per associazione, noi) non sembri interessata all'adempimento degli obblighi previsti dalla convezione (ad esempio, interrompendo la vendita di armi), ma anche che non adottino misure per evitare di ritrovarsi un giorno in un'aula di tribunale nella posizione meno desiderabile.

Una questione correlata, ovvero se a Gaza si stia verificando una carestia, implica anch'essa una semplificazione eccessiva, poiché la sua assenza non significherebbe che la malnutrizione è sotto controllo. Inoltre, non esiste un'unica definizione di carestia, anche se generalmente si intende come un insieme di condizioni che si verificano raramente, tra cui spicca un livello così estremo di insicurezza alimentare che le persone esauriscono i meccanismi di sopravvivenza per sfamare le loro famiglie. In genere, le prime sacche di carestia si osservano nelle comunità più povere ed emarginate. Le informazioni pubbliche e private di cui dispongo suggeriscono che ciò sta accadendo a Gaza e che la situazione sta rapidamente peggiorando.

Se Israele allenterà le restrizioni agli aiuti, come ha fatto nell'aprile 2024, la tendenza potrebbe invertirsi rapidamente. Tuttavia, ciò dovrebbe avvenire subito (adesso, non tra dieci giorni). In caso contrario, la malnutrizione acuta, una condizione clinica che espone le persone (in particolare i bambini e le donne in gravidanza o in allattamento) a un alto rischio di morte per infezioni altrimenti comuni, continuerà ad aumentare in modo esponenziale. La condizione si evolve nel giro di poche settimane, il che significa che la maggior parte dei decessi si verifica con un certo ritardo. In altre parole, tra uno o due mesi potremmo trovarci di fronte a un'ondata di bambini gravemente malnutriti che muoiono di polmonite o diarrea grave.

Sono questioni politiche? È davvero una presa di posizione politica chiedere che Stati come il Regno Unito interrompano qualsiasi vendita di armamenti a Israele e si adoperino attivamente per impedirgli di provocare una fame diffusa, ad esempio attraverso sanzioni? Se per “politico” intendiamo non neutrale, ci sono certamente punti fermi di non neutralità sia nella prospettiva della salute pubblica che in quella umanitaria: i crimini di guerra, la violenza strutturale e l'oppressione compromettono la salute; l'assistenza umanitaria è benefica; è necessaria una qualche forma di diritto internazionale da applicare per proteggere le persone e gli attori umanitari; le cause profonde della scarsa salute devono essere affrontate; ogni vita ha lo stesso valore: palestinese, ebrea, delle Isole Salomone.

La portata della nostra “politica” espressa in modo professionale dovrebbe quindi essere quella di aspettarci, in qualità di specialisti della salute pubblica o operatori umanitari, che gli Stati e le altre istituzioni con potere effettivo agiscano (e non si limitino a parlare) in conformità con i punti sopra indicati.

Adottando una visione della salute pubblica più a lungo termine, potremmo anche aspettarci che i nostri governi, specialmente quelli con un grave retaggio coloniale, estendano la loro considerazione al benessere effettivo degli israeliani. Come sostiene Daniel Levy, nessuna di queste violenze li rende più sicuri o più ricchi. Per la prima volta da decenni, Israele registra un saldo migratorio negativo. Anche supponendo che la sua sicurezza esterna rimanga garantita a tempo indeterminato dall'unico punto debole da cui dipende (gli Stati Uniti), il crescente bullismo interno nei confronti degli arabi e degli ebrei israeliani che criticano la guerra finirà per trasformarsi in qualcosa di più fisicamente persuasivo?

Ultimo ma non meno importante: chiunque sia colpito da crisi diverse da quella di Gaza (e dell'Ucraina) potrebbe sentirsi ancora più ignorato del solito in questi giorni. Posso confermare che davvero non li vediamo, né li sentiamo. Non c'è ricezione per le loro voci, il segnale è disturbato.

Una delle tante ferite etiche purulente di questo conflitto è la grande sproporzione nell'attenzione riservata, da un lato, alle vite dei civili israeliani rispetto a quelle dei palestinesi e, dall'altro, ai palestinesi rispetto, ad esempio, alle persone colpite dalle guerre nella Repubblica Centrafricana o in Mali (sto ipotizzando un rapporto di circa 1:50:1000 tra il numero di morti che attirano l'attenzione dei media). A mio avviso, alcuni segmenti del movimento filopalestinese mostrano una preoccupante indifferenza nei confronti di questa iniquità. Forse l'unica cosa che va a favore dei gazawi in questo momento è la quantità di aiuti pronti per essere consegnati loro; altrove, quest'anno si assisterà a una voragine nell'assistenza umanitaria a centinaia di milioni di persone che ne hanno bisogno. Ciò avrà effetti plausibilmente rilevanti sulla mortalità, la maggior parte dei quali rimarrà probabilmente non quantificabile.

Eppure Gaza ha un significato importante al di là dei suoi confini quasi chiusi e merita l'interesse anche di chi è lontano da essa, ma non estraneo ad alcune delle condizioni – guerra, insicurezza alimentare, traumi psicologici su larga scala – che attualmente affliggono i palestinesi. Si sta creando un precedente, che viene quotidianamente superato, messo alla prova e aggiornato da Israele: crimini di guerra commessi alla luce del sole, con prove in tempo reale che superano la capacità di comprensione umana, e la conferma, finora infallibile, dell'impunità. Un precedente globale anche per l'effettiva nullificazione dei principi e degli imperativi della salute pubblica e dell'umanità. Il punto è proprio questo: altri potrebbero benissimo leggere il manuale di Israele e – indovinate un po' – trovarlo irresistibile.

Cosa possiamo fare allora noi – esperti di salute pubblica, accademici, professionisti interessati – mentre assistiamo da spettatori, oltre a spellarci le mani con sempre più forza? Forse una scienza solida, che noi e altri, tra cui, in modo ammirevole, gli scienziati di Gaza, abbiamo intrapreso con risorse limitate. Potrebbe non cambiare nulla sul campo, ma le prove scientifiche sono state già riconosciute come prove nei tribunali per crimini di guerra. Più recentemente, alcuni di noi hanno pubblicato una lettera sul British Medical Journal, chiedendo l'intervento del governo britannico (se siete accademici o professionisti nel campo della salute in Gran Bretagna, vi invitiamo a firmarla). Il nostro direttore ha scritto al governo e anch'io ho scritto al parlamentare eletto nella mia zona. Ripetere iniziative di questo tipo ovunque vi troviate potrebbe ancora dare i suoi frutti attraverso uno strano accumulo stocastico di eventi simili all'effetto farfalla. Potrebbe essere preferibile piuttosto che non fare nulla.

In ogni caso, il ventunesimo mese di questa distopia sempre più grottesca è ormai finito. Le scelte, come sempre, c'erano. Si sarebbe potuto fare qualcosa. Un giusto esercizio del potere non sarebbe potuto arrivare troppo tardi, anche se sarebbe stato comunque dolorosamente tardivo. Il segno di ulteriori ritardi: altri corpi calati nella sabbia di Gaza. Tutto questo può certamente peggiorare nel ventiduesimo mese. Oppure può certamente migliorare. Ciò che è immutabile è ciò che abbiamo fatto al riguardo.

*Disclaimer: l'autore è un ex membro di una ONG umanitaria e professore di epidemiologia e salute internazionale alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, ma ha scritto questo articolo a titolo personale.

Articolo originale pubblicato in inglese sul sito della London School of Hygiene & Tropical Medicine e tradotto in italiano per gentile concessione dell'autore.

(Immagine in anteprima: frame via YouTube)

Fonte
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