Intervista a Irit Hakim e Aisha Khatib, attiviste dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace, in Italia dal 21 al 24 settembre 2025
Il prossimo 21 settembre sarà la Giornata Internazionale della Pace e dobbiamo ringraziare la Fondazione Gariwo di Milano per aver concepito un’iniziativa così ricca di contenuti, contributi, momenti di confronto, che dalle 14 e fino alle 20 di sera sarà possibile seguire all’interno del Giardino dei Giusti, in zona Monte Stella a Milano. (Clicca sull’immagine per il programma completo)
“Alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente e dell’orrore che non si placa abbiamo voluto indicare la possibilità di un’alleanza tra le forze intenzionate a ricostruire i ponti dalle macerie” leggiamo nel comunicato che riepiloga un programma giocato sul tema della Tenda del Lutto, come quella che nel marzo del 2024 è stata allestita nel villaggio bi-nazionale di Neve Shalom Wahat al-Salam. Uno spazio in cui sarà possibile sostare “per tutto il tempo che sarà necessario e sintonizzarsi così con il battito del proprio cuore, per un momento di riflessione.”
L’iniziativa ha ricevuto l’adesione di numerose associazioni (tra queste anche il nostro Centro Studi Sereno Regis) ed è stata organizzata in collaborazione con IPSIA ACLI, il Centro di Nonviolenza Attiva e l’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam. E le ospiti davvero ‘speciali’ di questa giornata, saranno la palestinese Aisha Khatib e l’israeliana Irit Hakim, attiviste dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace, che nei giorni successivi all’evento milanese sarà possibile incontrare anche a:
- 22 settembre, ore 18 a Torino: CAM Culture and Mission, via Cialdini, 4;
- 23 settembre, ore 18 ad Aosta: Sala Expo Plus, via Garibaldi, 7;
- 24 settembre, ore 21 a Morbegno: Complesso San Giuseppe, via V Alpini, 190.
In attesa di incontrarle di persona, le abbiamo raggiunte per telefono nei giorni scorsi ed ecco qui un’anteprima delle loro storie.
Aisha Khatib
Vivo a Nablus, lavoro come manager in una scuola elementare, sono sempre stata impegnata nel sociale e ho avuto sei figli di cui tre “in salvo” tra Manchester e Polonia. E ho già qualche nipotino. Sono entrata nel Movimento dei Combatants for Peace sei anni fa, 2018, ma già dal 2004 partecipavo alle attività dei Parents Circles Family Forum per via della morte del mio fratello amatissimo Mahmoud, colpito al cuore quando aveva 17 anni da un soldato dell’IDF.
Era il 7 agosto 1989, non potrò mai dimenticare quella data. Stava per strada, diretto alla casa dei nonni. O forse è possibile che anche lui stesse partecipando al lancio di qualche pietra, erano gli anni della prima intifada. Un soldato gli ha sparato proprio al cuore. E’ sopravvissuto per dieci anni e si è persino sposato, ma solo pochi giorni dopo il matrimonio è morto e la diagnosi è stata chiarissima. E’ stata una morte differita nel tempo, ma la causa è stata quel proiettile. Ed è morto lo stesso giorno in cui è stato colpito: 7 agosto 1999. Pochi giorni dopo la sepoltura di Mahmoud anche un altro fratello, solo due anni più giovane di lui, si è buttato dal quinto piano di un palazzo ed è morto sul colpo. I due erano legatissimi, e dunque doppia perdita, una più dolorosa dell’altra.
I nostri genitori non si sono mai più riavuti da questa tragedia, ed è toccato a me, figlia maggiore, cercare di rimettere insieme i pezzi, ma non è stato facile. Come poteva essere possibile una situazione di oppressione come quella che ci viene inflitta ogni giorno, da decenni. Com’è possibile che degli esseri umani possano diventare così crudeli verso altri essere umani? Cosa c’è nella testa degli israeliani… Sapevo di questi incontri promossi dai Parents Circle, e mi feci convincere da un’amica a iscrivermi a un incontro che si teneva a Beit Jala, quattro ore di macchina per arrivarci e altrettante per tornare.
Ricordo ancora come fosse adesso la stretta allo stomaco che mi prese quando entrai in quella sala, tutti che si parlavano animatamente come fossero amiconi, alcune donne che persino si abbracciavano, tra palestinesi e israeliane… come poteva essere possibile, con tutto quello che stavamo subendo? Mi prese un moto di rigetto quasi fisico, volevo andarmene immediatamente, ma ahimè non disponevo della mia macchina per cui mi misi alla ricerca di un taxi: ma era quasi notte, avevo pochi soldi, rimasi per forza a sciropparmi quel teatrino.
Improvvisamente mi è venuta incontro Sharon, non potrò mai dimenticarla, e mi ha chiesto se poteva raccontarmi la sua storia. Le ho risposto di no. Ma lei non si è persa d’animo: “Abbiamo la stessa storia … anch’io ho perso un fratello”. E’ stato un momento intensissimo, ho cominciato a piangere mentre lei mi parlava di suo fratello e di quanto erano vicini, quando andavano a scuola oppure giocavano insieme, pensando a cosa sarebbero diventati da grandi. E più mi raccontava di suo fratello e più mi ritrovavo nelle sue parole. Ed è stato in quel momento che è diventato naturale chiederle di abbracciarmi mentre piangevamo insieme.
Questo mio viaggio è cominciato in quel preciso momento, ed è poi proseguito con un’infinità di incontri all’interno dei Parents Circles finché non ho deciso di entrare nei Combatants for Peace. Era il 2018 e già da qualche anno c’era stata una bella evoluzione: non erano più solo ex combattenti da entrambi i fronti del conflitto, sempre più donne e giovani partecipavano alle attività del movimento. E di lì a poco la direzione sarebbe passata infatti nelle mani della attuali co-direttrici, Rana Salman ed Eszter Koranyi.
In cosa consiste il mio attivismo? Nel promuovere sempre di più e sempre meglio l’incontro fra donne, israeliane e palestinesi. Sto parlando di persone comuni, normali, non particolarmente intellettuali o speciali. Persone che vivono in modi diversi l’oppressione di questo continuo stato di guerra e si sentono responsabili del cambiamento, ne sentono il bisogno. E si aprono all’ascolto, invocano un cambiamento, vogliono conoscere il punto di vista dell’altra parte, in termini di rispetto reciproco, mettendosi nei panni dell’altro, questa è la cosa più importante, se vogliamo davvero la fine di questa orrenda guerra. Ed è possibile se ci riconosciamo nella nostra umanità.
(…) Ciò che è successo il 7 ottobre è stato terribile. Ricordo il momento in cui ci è arrivata la notizia, mentre ero impegnata insieme ad altri CfP nella raccolta delle olive, in una località lontana da Nablus e sempre più assediata dai coloni. Sulle prima non capimmo, continuammo nel nostro lavoro. Fu solo quando stavamo sulla via del ritorno, che prendemmo coscienza della gravità di quanto era successo, e che stava per scatanarsi. Non so quanti checkpoints ci trovammo a subire quel giorno, per non dire del rischio di rimetterci la pelle pochi giorni dopo, mentre stavo guidando: a qualcuno venne la bella idea di sparare alla mia auto, conservo ancora la foto dei fori nella carrozzeria.
Ma anche dopo quell’episodio non ho perso la speranza, mai e poi mai perderò la speranza. Perché credo anzi sono certa che tra gli israeliani sono tanti quelli che la pensano come noi e credono che possa esserci una ben diversa soluzione.
Intanto però a Gaza succede quel che succede, che nessuno sembra in grado di impedire. Ho amici, e anche dei parenti che vivono lì e non sanno più dove andare. Alcuni preferiscono semplicemente morire dove sono, considerando che anche spostandosi avrebbero poche chances. Sto pregando, prego in continuazione, non faccio altro che pregare.
Irit Hakim
Sono nata a Rosh Pina, una piccola città nel nord d’Israele molto vicina al confine con la Siria, per cui durante la mia infanzia e adolescenza non mi sono mancate le frequentazioni con le popolazioni arabe. Ora vive vicino a Tel Aviv e sono anagraficamente in pensione, ma continuo a fare quel che ho sempre fatto, la ceramista. E mi considero, da sempre, un’attivista: di sinistra e pacifista.
Il momento cruciale in questo percorso di consapevolezza è successo quando mi sono trovata ad insegnare in una località del nord d’Israele: una notte, in una scuola non lontana dalla nostra, ci fu l’attacco dei fedayin, dalla Siria. Un buon numero di studenti rimase ucciso, fu per tutti uno shock, un trauma. Avrei potuto reagire in tanti modi diversi e invece la mia unica reazione fu la realizzazione che non si poteva continuare in quel modo e quando verso la fine degli anni ’70 venne fondata l’organizzazione Peace Now, tuttora molto attiva ed importante, trovai naturale associarmi a quel progetto.
Avevo una trentina d’anni, ero già sposata, mio marito aveva già combattuto in alcune guerre, anch’io come tutt* avevo fatto il servizio militare, ma senz’altro volevo la pace. Proprio in quegli anni c’era stato l’episodio di Uri Avnery, pacifista famoso, che era stato in visita ad Arafat, una visita considerata illegale ma così significativa circa la necessità di parlarsi, di essere ponti. Eravamo giovani e facevamo tutto il possibile per accrescere questa consapevolezza creando occasioni di dialogo con il “nemico”.
A quell’epoca era normalissimo recarsi in visita in Cisgiordania e anche a Gaza: parlavamo con i palestinesi, ci accoglievano nelle loro case, a nostra volta li accoglievamo in Israele, per delle riunioni che erano al tempo stesso normali e surreali: eravamo di sinistra, ma a nessuno veniva in mente di mettere in dubbio la legittimità dell’occupazione. In generale eravamo convinti che ok: a un certo punto eravamo arrivati, ci eravamo insediati… davamo per scontato troppe cose. Nessuno avrebbe immaginato che saremmo arrivati agli estremismi di oggi, né era in grado di elaborare un’analisi del problema che era già così evidente allora.
Tutto questo succedeva parecchio tempo prima che esistessero i Combatants for Peace, che sono nati nel 2006. E fu qualche anno dopo, nel 2009, che mi capitò per la prima volta di assistere alla Memorial Ceremony, che ogni anno viene organizzata in coincidenza con Yom Hazikarom, la festività più patriottica del calendario ebraico: il giorno in cui Israele ricorda uno per uno tutti i morti nelle tante guerre combattute nella sua breve storia.
Una commemorazione che fin dal primo anno della loro esistenza i Combatants for Peace hanno riproposto in chiave bi-nazionale, per ricordare anche le tante vittime palestinesi, idea inaccettabile per il mainstream. Per me invece è stata fin da subito la cosa che era mancata nel pacifismo che avevo vissuto prima: il fatto di riconoscerci nel dolore dell’altra parte, trovare un punto di contatto, la possibilità di riumanizzazione nella sofferenza, e da lì ripartire, per contribuire alla creazione di piccoli e grandi ponti di dialogo, che sono il fondamentale prerequisito della pace.
Non c’erano ancora molte donne nelle fila dei Combatants for Peace in quell’anno, ma presto ce ne sarebbero state, man mano che l’attivismo dell’organizzazione si espandeva in tante altre città e anche in Cisgiordania: era il primo movimento bi-nazionale, israelo-palestinese in tutto, dal livello direzionale alle aggregazioni di base, un esperimento davvero interessante e umanamente molto stimolante.
Anche per i Combatants for Peace il 7 ottobre è stato un momento difficile: nessuno capiva cosa stava succedendo, messaggi che arrivavano da tutte le parti, e quelli che arrivavano dai territori occupati davano versioni totalmente diverse da quel che vedevamo noi in Israele. C’è stato un lungo momento di silenzio, parlarsi era diventato difficile, come se fossero crollate le condizioni fondamentali di fiducia…
Poi piano piano abbiamo ricominciato a rivederci su zoom, ma ci sono volute parecchie riunioni e tante tante lacrime per riprendere a lavorare insieme. Al tempo stesso la difficoltà ci ha reso più forti, e più che mai desiderosi di continuare. E quante nuove iniziative si sono messe in moto dopo il 7 ottobre, non solo all’interno dei Combatants for Peace! E’ tutto un fiorire di movimenti di co-resistenza, una mobilitazione continua, ormai siamo una coalizione di movimenti, con tantissimi giovani che sempre più spesso rifiutano il servizio militare, cosa impensabile un tempo e sempre più riservisti che rifiutano di tornare a combattere, perché a soffrire non sono solo loro, ma le loro famiglie; e parecchie organizzazioni sorelle che ci sostengono dagli Stati Uniti, dalla Germania e speriamo anche dall’Italia.
E tutto questo mi riempie di speranza. Non so cosa ne uscirà, ma so che ci stiamo impegnando molto. E prima o poi vedremo i frutti di questo impegno.