Riportiamo il discorso dell’attivista italo-palestinese Maya Issa ieri al Pride di Roma.
Mi chiamo Maya Issa e sono una studentessa italo-palestinese. I miei genitori sono profughi palestinesi, ma io sono nata in Italia e non sono mai potuta entrare nella terra della mia famiglia, la Palestrina, alla cui storia e cultura sono legata; per questo da anni sono un’attivista della causa del mio popolo oppresso.
Non ho mai potuto entrare in Palestina perché fino a diciotto anni avevo un passaporto da profuga palestinese rilasciato dal Libano e a noi profughi è vietato a causa dell’occupazione israeliana l’ingresso nella nostra terra; è negato infatti il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
Essendo nata in Italia a diciotto anni ho chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana, ma poco cambia perché, a causa del mio cognome, capirebbero che sono palestinese e soprattutto a causa del mio attivismo, molto probabilmente mi respingerebbero senza neppure farmi uscire dall’aeroporto.
Mi considero italo-palestinese, anche se non é mai stato facile portare avanti queste due identità. Fin da bambina, alle elementari, venivo derisa e isolata. Ero “l’araba”, quella con i tratti diversi, il nome difficile da pronunciare. Sono stata vittima di bullismo e di razzismo.
Al liceo era anche peggio. Mi dicevano: “Tu non esisti. La Palestina non esiste sulla cartina”. Parole taglienti, che non volevano solo ferire: volevano cancellarmi. Cancellare la mia storia, la mia famiglia, la mia esistenza.
Ma io non mi sono vergognata. Mai… Quelle parole e quegli sguardi ostili mi hanno dato forza. Mi hanno spinta a cercare, a capire, a domandare. A conoscere la terra dei miei genitori, le radici dei miei nonni, la causa del mio popolo.
Nonostante tutto, nonostante il razzismo, nonostante il silenzio assordante e la complicità dei governi italiani di fronte al genocidio del mio popolo, io continuo a sentirmi, nel profondo, fieramente italiana e fieramente palestinese.
Sono nata qui, ho respirato l’aria di questo Paese sin dal primo giorno. Ho studiato qui, ho vissuto qui, ho costruito la mia vita qui. Ho potuto avere quei diritti che ai miei cugini, nati nei campi profughi in Libano, sono ancora negati. Io sono entrambe le mie identità. E nessuno potrà cancellarle.
Due anni fa, durante una manifestazione di “Non una di meno”, sono stata aggredita da una donna sionista che ha tentato di strapparmi la bandiera palestinese e poi mi ha insultato.
Al Pride siamo presenti come Movimento Studenti Palestinesi. Siamo lì per contestare la presenza dei sionisti, per dire chiaramente che non permettiamo che si ripuliscano la loro immagine strumentalizzando le nostre lotte.
La nostra identità, le nostre battaglie non sono terreno da usare per la loro propaganda. La solidarietà non è vera se non è anche contro l’oppressione del popolo palestinese.
Israele non è una democrazia. Non lo è mai stata. Una democrazia si riconosce da come tratta le sue minoranze, da come garantisce diritti, dignità e giustizia. Israele invece, da decenni nega tutto questo al popolo palestinese. Ha costruito un sistema di apartheid, di segregazione, di violenza. Ha trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto. Ha occupato la Cisgiordania con checkpoint, incursioni militari e umiliazioni quotidiane.
Oggi parliamo di 70.000 palestinesi assassinati. Settantamila martiri, tra cui migliaia di bambini. Settantamila persone massacrate mentre il mondo finge di non vedere.
Questo è genocidio. E in mezzo a questo orrore, Israele si presenta al mondo come uno Stato “progressista”, “moderno”, “inclusivo”, sbandierando il fatto che le persone LGBTQIA+ avrebbero diritti, che a Tel Aviv si fa il Pride, che c’è “libertà”.
Questo è Pinkwashing, una strategia di propaganda che Israele – come altri Stati – usa per la propria immagine, strumentalizzando i diritti LGBTQIA+ per distrarre, per coprire, per giustificare l’occupazione e il genocidio in corso. Ma noi non ci caschiamo. Non possiamo accettare che le nostre lotte vengano usate per legittimare crimini contro l’umanità.
Non c’è nessun “diritto”” da celebrare se, a pochi chilometri dal Pride di Tel Aviv, bambini vengono massacrati e famiglie intere rase al suolo. Non c’è orgoglio sotto le bombe. Non si può parlare il linguaggio del Pinkwashing durante un genocidio.
E dobbiamo dirlo forte anche qui, nelle nostre piazze, nei nostri Pride: è vergognoso che Starbucks sia sponsor di questo Pride. Una multinazionale che reprime chi esprime solidarietà alla Palestina, che licenzia lavoratorə per aver preso posizione, che si schiera con chi bombarda e poi si presenta come società “inclusiva”.
Noi non vogliamo alleati così. I nostri Pride non sono vetrine per aziende complici. I nostri corpi non sono strumenti di marketing. Le nostre lotte non si vendono.
Ed è proprio qui che vogliamo ribadirlo con forza: le nostre lotte sono intersezionali. Lottare contro l’omolesbobitrasfobia vuole dire anche lottare contro il razzismo, il colonialismo, il genocidio. Essere queer e antifascista vuol dire anche essere antisionista. Le nostre oppressioni sono collegate e così devono esserlo le nostre resistenze.
Non esiste liberazione queer se c’è l’apartheid. Non esiste giustizia sociale se si ignorano i corpi palestinesi massacrati. Non c’è libertà per nessuno finché c’è occupazione.