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Palestina – fermare il genocidio. Solidarietà internazionale 

È durata una manciata di settimane la sospensione dei bombardamenti su Gaza, voluta da Trump per tingere di “buono” la luna di miele con la sua neo-presidenza.

Il 18 marzo gli aerei da guerra e i droni dell’esercito israeliano hanno ricominciato la loro terribile musica e i soldati sono tornati ad uccidere anche da terra. Da quel giorno le stime ufficiali contano altri 1900 morti che fanno un totale di oltre 51000 dall’inizio dell’operazione genocida in corso (ottobre 2023). Inutile dirlo, sono cifre dal puro carattere orientativo e quasi sicuramente sottostimate, non potendo essere conteggiate le vittime ancora sotto le macerie, ma soprattutto le morti indirette per fame, malattie e mancate cure. Peraltro, è proprio verso i luoghi di cura che la furia sterminatrice sionista ha nuovamente dedicato una specifica attenzione: il 13 aprile scorso è stato distrutto l’ultimo ospedale di Gaza ancora funzionante, dopo che un mese prima, a Rafah, i soldati israeliani avevano ucciso a sangue freddo 15 soccorritori palestinesi colpevoli solo di tentare di raccogliere feriti con le loro ambulanze.

Del resto, fin dall’inizio della loro impresa genocidaria le forze armate sioniste hanno avuto una particolare attenzione per ospedali e scuole, cioè per quei luoghi che sono fondanti in una società civile. Una società civile di cui si vuole impedire l’esistenza ad ogni livello possibile e immaginabile. Ormai i palestinesi di Gaza vivono per lo più accampati nelle tendopoli, vistosamente sottonutriti, costantemente alla ricerca di un cibo che scarseggia sempre di più perché dal 2 marzo Israele non fa più entrare gli aiuti internazionali, a cominciare da cibo e farmaci. Su questi accampati denutriti si continuano a sganciare bombe. Quello in corso non è soltanto un genocidio, è anche un grande esperimento di tortura collettiva verso una popolazione che, a differenza di quanto avviene in altre zone di guerra, non ha nemmeno la possibilità di tentare di fuggire altrove (da Gaza non si può uscire). A Gaza certamente si stanno testando le armi e forse si sta testando anche la resistenza umana alla sofferenza, come fu già fatto da altri soggetti, in altra epoca storica.

Peraltro, anche in Cisgiordania – l’altro pezzo di Palestina insanguinata – le continue aggressioni coordinate tra squadracce di coloni e soldati israeliani regolari continuano a perseguire la politica di progressiva espulsione di palestinesi e di spoliazione delle terre. Ormai ridotta in lembi ristretti di territorio, circondati dagli avamposti coloniali sionisti, la Cisgiordania sta vivendo anch’essa la stagione più violenta degli ultimi decenni.  In 18 mesi si contano quasi mille palestinesi ammazzati, cioè molti di più di quelli registrati nelle fasi precedenti della colonizzazione.

La Cisgiordania e Gaza stanno comunque entrambe nel quadro di un’operazione politico-militare che appare quanto mai indefinita nella durata e mancante di rigidi confini nelle ambizioni. Abbastanza spesso, in svariati ambiti politici e giornalistici, si attribuisce l’indefinitezza e il prolungamento dell’operazione militare in corso agli interessi personali di Netanyahu. È ragionevole pensare che, in effetti, gli interessi di Netanyahu e della sua cricca ristretta un qualche loro ruolo lo stiano giocando. Prima del 7 ottobre il presidente israeliano attraversava guai giudiziari e una metà del suo paese scendeva ogni giorno in piazza contro di lui. È cosa evidente che l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 sia stato per lui salvifico e che faccia di tutto per prolungare lo stato di mobilitazione militare per rimanere il più a lungo al potere. Ma pensare che l’orrore di Gaza stia continuando per volere di un uomo solo, senza il consenso di almeno una parte importante del complesso militar-industriale israeliano, è ben poco credibile. Evidentemente Netanyahu gode ancora quantomeno del nulla osta dei pezzi fondamentali del potere economico, politico e militare del suo paese. Evidentemente la strada da lui intrapresa risponde ancora, in una qualche misura, ai problemi esistenziali dei ceti dominanti israeliani, che nella continua espansione coloniale a danno dei palestinesi, hanno storicamente trovato un essenziale tassello del loro folle equilibrio interno. Del resto, fin dall’operazione “Piombo fuso” del 2008, Israele ha stretto sui palestinesi un’inesorabile morsa a tenaglia: apartheid duro in Cisgiordania e piccoli saggi di genocidio a Gaza (periodici bombardamenti a tappeto di un territorio chiuso e ad altissima densità abitativa). Le operazioni in corso costituiscono l’elevazione a potenza di questa strategia, attraverso la quale si punta ad un vero e proprio annichilimento della società palestinese e che, presumibilmente, rimandano alla prospettiva di una nuova grande espulsione di masse palestinesi sia da Gaza che dalla Cisgiordania.

Il raccapricciante spot di Trump che mostra una Striscia di Gaza liberata dagli incomodi palestinesi e divenuta “riviera” per turisti facoltosi che degustano colorati drink è una vergogna sin troppo “futurista”, ma esprime, comunque, una direzione verso cui qualcuno pensa di incamminarsi. Non la “soluzione finale”, che non è realistica e neanche conveniente, bensì una rapida apertura di nuovo “spazio vitale” per la prospettiva della Grande Israele. Senza arrivare all’idea di deportazioni forzate anch’esse poco realistiche, è possibile che nella mente di Netanyahu (e di Trump) vi sia l’idea che dopo qualche anno di inferno come quello attuale, bastino alcune oculate aperture delle frontiere per determinare un massiccio esodo volontario di disperati; e così una buona parte del “problema” palestinese sarebbe trasferito ad altri. Nel frattempo, tanto per non sbagliare, si sperimentano le cosiddette zone cuscinetto con relativi sfollamenti interni di decine di migliaia di persone (vedi, ad esempio, a Rafah).

Con un tale contesto, è molto difficile stabilire cosa stia accadendo nella società palestinese, ma possiamo registrare ancora una volta la sua intramontabile dignità e resilienza che sembra resistere a qualsiasi orrore. Al momento, ad esempio, è ancora molto difficile decifrare il peso e il significato reale delle recenti proteste contro Hamas a Gaza.

Qualcosa di più, invece, possiamo capire su ciò che accade dentro Israele. Un articolo, apparso sulla rivista israelo-palestinese +972 e pubblicato sulla pagina FB “Osservatorio mediterraneo di pace”, testimonia che sono circa 100.000 i giovani in meno ad essersi presentati al servizio militare come riservisti rispetto a quanto accadeva all’inizio delle operazioni a Gaza. Certo la maggior parte di coloro che non si arruolano sono definiti “obiettori grigi”, cioè non convintamente contrari alla guerra, ma semplicemente demoralizzati o stanchi dalla lunga durata delle operazioni in corso; e pur tuttavia essi costituiscono un campanello d’allarme per la cricca governativa, soprattutto nel quadro della crisi interna alla società israeliana che ha preceduto il 7 ottobre 2023, e che la ripresa delle operazioni militari certamente esaspera.

Allo stesso tempo, la fine della breve tregua “trumpiana” e la ripresa a pieno ritmo dei massacri, sono elementi che soffiano ulteriormente sul discredito internazionale di Israele, dando altresì nuova linfa al robusto movimento internazionale di solidarietà con la Palestina. Un movimento che sta dimostrando una grande costanza di mobilitazione a tutte le latitudini, Italia compresa. Un movimento che ha nel boicottaggio delle merci israeliane uno strumento di pressione potenzialmente notevole. Un movimento che anche in Italia – al netto di alcune pesanti influenze politiche che lo condizionano – esprime, nella gran massa, una diffusa, profonda e viscerale empatia verso la dolorosissima condizione palestinese. Come tale esso sembra avviato a divenire un elemento stabile dell’agenda politica nazionale e internazionale, nella misura in cui la drammatizzazione della vicenda mediorientale pare, purtroppo, destinata ad occupare la scena politica.

In questo contesto e in questa prospettiva, va salutata positivamente la grossa manifestazione di Milano del 12 aprile, organizzata dai sindacati di base e con al suo interno una buona presenza dell’area libertaria. Altrettanto positivamente va costruendosi la manifestazione del 31 maggio a La Spezia, manifestazione che è contro tutte le guerre e contro l’industria delle armi, ma è, sin nelle premesse, fortemente segnata dalla solidarietà al popolo palestinese, contro il genocidio e contro l’apartheid.

Claudio Strambi

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