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Le proteste in Israele

La grande ondata di manifestazioni israeliane alla quale stiamo assistendo ha avuto sostanzialmente inizio nel gennaio del 2023 in risposta alla riforma giudiziaria promossa dall’ultimo governo Netanyahu non appena insediatosi grazie a una pericolosa alleanza con i partiti ultraortodossi e con quelli del sionismo religioso fanatico. 

L’intento della nuova coalizione di estremisti di subordinare la Corte Suprema e di destituire con ogni mezzo i garanti della legalità e le personalità “scomode” dei vertici militari e dell’intelligence, era stato subito percepito come una minaccia alla democrazia dello Stato ebraico dalle elite del sionismo laico e liberale che, nel tentativo di opporsi, hanno dato vita a un massiccio movimento di protesta. Per mesi ogni sabato sera fiumi di persone, tra cui esponenti delle classi dirigenti, professionisti dell’hi-tech, piloti, medici e accademici sono scesi nelle piazze delle principali città israeliane, o davanti alle residenze di Netanyahu, sventolando grandi bandiere con la stella di Davide e protestando contro il primo ministro e i suoi alleati. 

La retorica sui palchi di Kaplan, la lunga via di Tel Aviv sede delle manifestazioni principali, non è ad oggi esente da contraddizioni, infarcita di militarismo, suprematismo ebraico della leadership ashkenazita laica e demonizzazione indiscriminata dei religiosi. Se alla vigilia del 7 ottobre il paese sembrava sull’orlo di una guerra civile, polarizzato tra governo e opposizione, religiosi e laici, i traumatici massacri di Hamas hanno sortito, almeno inizialmente, l’effetto di ricompattare il paese e il patriottismo dei manifestanti è confluito nella risposta affermativa alla chiamata alle armi, accanto a infinite iniziative di volontariato che cercavano di compensare l’inefficienza delle istituzioni nel fornire servizi e assistenza a civili e militari, sfollati e vittime dirette degli attacchi. 

L’appoggio pressoché incondizionato dell’opinione pubblica all’offensiva militare, accanto al divieto di assembramento negli spazi pubblici per il rischio di missili, ha congelato le proteste dell’opposizione per diversi mesi, mentre il dramma degli ostaggi prigionieri di Hamas dava vita a un nuovo grande movimento nazionale, non dichiaratamente politico, che ha cominciato a radunarsi ogni sabato sera intorno al Forum delle Famiglie in segno di sostegno. Trascorso il primo anno, tuttavia, la solidarietà iniziale ha lasciato il posto a una rabbia sempre maggiore di fronte all’evidente strumentalizzazione delle operazioni militari operata dal governo a fini politici a spese degli ostaggi, dei riservisti, degli sfollati e dell’intera popolazione, e le manifestazioni sono riprese in tutto il paese con toni sempre più accesi.

Accanto a queste del cosiddetto mainstream si tengono proteste i cui promotori sono mossi da agende diverse che godono di scarsa popolarità. Si tratta delle manifestazioni degli ultraortodossi, della sinistra radicale ebraica e dei palestinesi soprattutto di cittadinanza israeliana. Folti gruppi di giovani ebrei ultraortodossi di sesso maschile che di tanto in tanto nelle ore di punta bloccano il traffico delle arterie stradali maggiormente affollate, protestano contro l’arruolamento obbligatorio che grava su di loro dopo che l’Alta Corte di Giustizia ha emesso una sentenza in base alla quale non sussisterebbe più alcun quadro giuridico tale da giustificare la decennale pratica di esenzione di cui godevano in qualità di studenti delle yeshivòt, le accademie rabbiniche. 

Dai tempi del primo ministro Ben Gurion la questione dell’esonero, insieme a quella dei finanziamenti statali delle yeshivòt, sono stati oggetto di accesi dibattiti presso l’opinione pubblica israeliana, ma il peso di mesi di combattimenti sulle spalle di soldati e riservisti, ha avuto tra le conseguenze quella di evidenziare drammaticamente l’eccezione di cui godono gli ultraortodossi nella società, riportando all’ordine del giorno la necessità che anche loro si facciano carica dell’onere militare in modo concreto. Traditi da Netanyahu, a sua volta soggetto alle pressioni dell’esercito che necessita di uomini, i partiti ultraortodossi minacciano da mesi di far cadere il governo se non otterranno in cambio l’esenzione permanente e, nel frattempo, esprimono il dissenso disertando e prendendo parte alle manifestazioni formalmente indette dalle frange estremiste del cosiddetto Peleg Yerushalmi. Anche se nelle circostanze attuali non sembra esattamente animata dal pacifismo, bensì da dinamiche finanziarie e di potere, non si può dimenticare che la società ultraortodossa è ancora guidata da una mentalità diasporica che nulla ha a che vedere con il messianesimo, il culto della terra o l’uso della forza che permeano invece quella sionista religiosa la quale ultima va pericolosamente teocratizzando anche il campo di battaglia.

La sinistra radicale ebraica è invece l’unica vera garante della democrazia, la sola che negli anni non ha mai perso di vista l’urgenza di porre fine all’occupazione a carico del popolo palestinese come chiave per la fine della violenza e la normalizzazione della presenza ebraica in Medioriente. Tra i suoi attori ci sono le ONG e le associazioni per i diritti umani, in buona parte confluite anche nella recente coalizione It’s time, movimenti dal basso come Standing Together, la Sinistra di Fede e la lista Hadash che vanta seggi anche alla Knesset. 

Non stupisce quindi che all’interno di Israele - dove il dramma di Gaza è silenziato dalla maggior parte dei media e volontariamente ignorato dagli stessi organizzatori delle proteste di Kaplan come la fisica Shikma Bressler - i primi a denunciare i crimini commessi a Gaza e a introdurre nel discorso pubblico ebraico la definizione di genocidio siano stati tra gli altri Ayman Odeh e Ofer Cassif, leader di Hadash, e le organizzazioni israeliane “B’Tselem” e “Physicians for human rights” (PHRI), a loro volta supportati dal quotidiano Haaretz e dalla piattaforma Local Call / +972, sito israeliano di informazione indipendente.  

Ad accomunare gli attivisti per i diritti umani e i partiti misti, oltre al lavoro di denuncia, catalogazione e sensibilizzazione delle violazioni in nome della pace e dell’uguaglianza, vi è soprattutto la partnership arabo-ebraica che comincia dai loro staff e ne caratterizza anche eventi e proteste. Quest’estate, con il vorticoso peggioramento della situazione a Gaza e in Cisgiordania, dove i civili perdono la vita ogni giorno, bersagli di operazioni militari e violenze psico-fisiche, e grazie al fatto che lo Stato ha allargato un po’ le maglie della repressione nei loro confronti, si assiste al risveglio delle proteste palestinesi, che hanno debuttato con una grande manifestazione a Sakhnin, in Galilea, lo scorso 25 luglio. Sempre nelle ultime settimane la lista Hadash patrocina proteste nelle città israelo-palestinesi di Tamra, Rahat, Acri, Ramla e Kfar Kassem, mentre l’associazione Combattenti per la Pace conduce sit-in silenziosi congiunti ogni fine settimana a Beit Jala in Cisgiordania. Ciò che rende unica la protesta nonviolenta di Beit Jala è la massiccia partecipazione palestinese, in una percentuale quasi pari a quella ebraica, un dato significativo che sfida tanto la rabbia quanto la critica di “normalizzazione” e le tragiche asimmetrie che generalmente disincentivano i palestinesi dal partecipare a iniziative congiunte. 

Infine nelle ultime settimane, complici la decisione del gabinetto di occupare Gaza seguita dall’approvazione del piano di annessione E1 e dall’ennesimo sabotaggio di Netanyahu che indugia senza ritegno nel siglare un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, il divario tra le istituzioni e l’opinione pubblica israeliana si è esasperato e anche voci sino ad ora più conservatrici sono corse ai ripari. 

Uno dei primi segni dell’inasprimento delle proteste è stato lo sciopero generale del 17 agosto promosso dalle famiglie degli ostaggi seguite dai partiti di opposizione. Tra gli aderenti anche il personale sanitario e della salute mentale, accademici, membri dell’hi-tech e associazioni di ogni genere, compresi molti esponenti della sinistra radicale tra cui spiccavano Standing Together e Hadash che, pur essendo portatori di vedute distanti da quella degli organizzatori, hanno ritenuto che l’unione faccia la forza. La gravità della situazione è tale, così come la necessità di liberare Gaza dalla morsa, che non si ha il privilegio di essere selettivi e la chiave di svolta sembra essere davvero quella di presenziare a tutte le proteste, ognuno con i suoi slogan e senza tradire la propria visione. 

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Del resto basta osservare l’evoluzione degli slogan apposti su cartelli e striscioni per comprendere che si tratta di una dinamica in divenire i cui partecipanti sono stanchi ma pur sempre permeabili a nuove idee e desiderosi di cambiamento. Precursori in questo senso sono stati gli attivisti di Standing Together che nelle grandi manifestazioni distribuiscono i loro cartelli offrendoli a tutti i manifestanti indistintamente, con il risultato che i singoli cittadini rompono i tabù e promuovono narrazioni molto più “radicali” di quelle degli oratori che ancora oggi salgono sui palchi escludendo Gaza dal discorso.

Immagine in anteprima: CFP Arabic

Intanto, sebbene boicottata in ogni modo dalla polizia di Ben Gvir, anche lo scorso sabato pomeriggio a Tel Aviv, si è svolta una grande manifestazione congiunta promossa dal “Comitato di Alto Monitoraggio per i cittadini arabi di Israele”. Nonostante il caldo torrido dell’agosto israeliano centinaia di manifestanti palestinesi ed ebrei sono giunti alle 16,30 alla piazza Habima per alzare la voce contro la fame forzata e il genocidio a Gaza, contro la pulizia etnica e l'escalation di violenza dei coloni, contro la persecuzione, il silenzio e la censura in nome della speranza in un futuro condiviso. Sul palco tra gli altri sono intervenute la sceneggiatrice, regista e autrice israeliana Shira Geffen, moglie dello scrittore Etgar Keret, e la “refusnik” Ella Keidar Greenberg, che ha recentemente trascorso due mesi in prigione, in cella di isolamento, per aver disertato il servizio militare. Entrambe hanno sottolineato l’importanza che gli ebrei israeliani imparino la lingua araba.

Una seconda giornata di sciopero è stata indetta per martedì 26 agosto mentre cresce l’aspettativa di una possibile diserzione dei riservisti richiamati negli ultimi giorni per prendere parte al nuovo piano criminale. Parte della sinistra italiana, sulla scia di letture coloniali e di quella che Adriano Sofri ha definito "feticizzazione del nome di genocidio", ha criticamente duramente lo sciopero del 17 agosto. Si è parlato di uno sciopero tardivo, finalizzato principalmente al ritorno degli ostaggi, ignorando così tanto l’imponenza quanto l’evoluzione della mobilitazione. Certamente il tempo è nemico, le contraddizioni sono tante e sarà quasi impossibile fermare le atrocità in corso a Gaza e salvare gli ostaggi senza un concreto intervento esterno, ma per chi vive in questo disgraziato angolo di terra, il futuro si gioca in queste piazze.

Immagine in anteprima: frame video YouTube via BBC

Fonte
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