L’11 luglio 2025, in occasione della festa di San Benedetto patrono d’Europa, presso l’Abbazia di Montecassino, l’Arcivescovo di Napoli cardinale Domenico Battaglia ha pronunciato forti parole in nome della pace contro la guerra e l’industria bellica. Ecco di seguito il testo della sua omelia:
Fratelli e sorelle nel Signore, oggi celebriamo San Benedetto,
patrono d’Europa, fondatore del monachesimo occidentale,
ma ancor prima, custode del tempo e dell’uomo.
Lo facciamo ascoltando la Parola di Dio,
che lo ha formato, ispirato, e guidato come una bussola
nel cuore di un’epoca smarrita,
come una fiamma che non si spegne anche quando tutto intorno è cenere.
“Figlio mio, se accoglierai le mie parole, se farai tesoro dei miei precetti,
allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio” (Pr 2,1.5)
È così che ci parla il libro dei Proverbi.
Con una voce che non grida, ma si china,
che non comanda, ma chiama per nome.
Parole di padre a figlio.
Parole che Benedetto ha ascoltato tante volte, forse in una cella di pietra,
mentre il silenzio fuori sembrava più vasto della storia.
Le ha ascoltate come si ascolta una sorgente nella notte,
e dentro quelle parole ha riconosciuto una via.
Non impose la sapienza,
non la trasformò in sistema,
non la custodì in una biblioteca.
Fece qualcosa di più umile e più rivoluzionario:
la offrì come un seme.
E i semi, lo sappiamo, non fanno rumore.
Non cercano il sole: lo attendono.
Non si difendono: si lasciano accogliere dalla terra.
E nella pazienza di chi sa aspettare, cominciano a trasformare tutto.
Così Benedetto:
non gridò la verità.
Non la sventolò come una bandiera in tempo di guerra.
Scelse di seminarla nel cuore degli uomini,
affidandola a gesti quotidiani, a regole minime, a ore di preghiera e lavoro.
E mentre il mondo intorno crollava,
lui ordinava le giornate come si ordina una mensa per gli ospiti:
con cura, con misura, con amore.
La sapienza – ci ricorda il testo sacro –
si conquista mettendo in ordine il cuore.
E Benedetto lo ha fatto come si mette ordine in una casa dopo una tempesta:
con mani stanche, con occhi lucidi, con fede ostinata.
Ha dato forma ai giorni,
ha insegnato che c’è una bellezza nascosta nella ripetizione,
che non serve una vita straordinaria per cercare Dio,
ma una vita semplicemente fedele.
E ha capito qualcosa che ci riguarda ancora oggi:
che in un mondo che corre e si perde,
servono uomini e donne che facciano silenzio su tutto il resto,
e ascoltino solo ciò che conta davvero.
Perché a volte, per tornare a Dio,
non bisogna fare mille passi avanti,
ma uno indietro:
tornare a quella voce che ci chiama “figli”.
A quel luogo interiore dove il tempo è ancora sacro,
la parola è ancora promessa,
e la sapienza è ancora un dono che si riceve in ginocchio.
Benedetto fu uomo di ascolto.
La sua Regola inizia con una parola semplice: “Ascolta, o figlio”.
Non dice: “Obbedisci”, non dice: “Costruisci”, non dice: “Agisci subito”.
Dice: Ascolta.
Perché ogni conversione vera comincia da lì:
dal silenzio che fa spazio all’altro,
dalla pazienza che impara i tempi di Dio,
dalla fiducia che si lascia istruire.
E Benedetto, prima di essere guida, fu figlio.
Figlio della Scrittura, figlio del suo tempo, figlio della Chiesa.
E così diventò padre, e generò un mondo nuovo nel grembo della storia.
Nel Salmo 33, abbiamo pregato:
“Venite, figli, ascoltatemi: v’insegnerò il timore del Signore”
Questa è l’eco che attraversa tutta la vita monastica: ascolto e insegnamento,
parola accolta e parola donata.
Un salmo che Benedetto avrebbe potuto scrivere, tanto ne condivide il respiro:
cercare la pace e perseguirla, custodire la lingua dal male, il cuore dal rancore.
È la sapienza degli umili, non degli eroi.
È la via della mitezza, che non fa rumore,
ma trasforma la terra, pietra dopo pietra.
Nel cuore della celebrazione, la voce di Paolo ai Colossesi ci ha chiesto qualcosa di straordinario:
“Rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine e di pazienza…”
Parole semplici, ma vertiginose.
Perché non basta evitare il male.
Occorre scegliere il bene,
coltivarlo come si coltiva un giardino,
senza aspettarsi applausi,
senza cedere al disincanto.
San Benedetto lo sapeva:
non si educa alla santità con il timore, ma con la coerenza;
non con parole solenni, ma con scelte quotidiane che creano comunione,
e fanno della vita un’offerta eucaristica.
È proprio nella vita fraterna – così difficile e così necessaria –
che si misura la verità della nostra fede.
Non c’è pace interiore che non passi dalla pace con i fratelli.
E non c’è comunità viva senza perdono, senza gratitudine, senza gioia.
Benedetto ha dato un corpo concreto a questa visione evangelica:
il monastero, la Regola, la preghiera che scandisce il tempo.
Ma tutto nasce da questo Vangelo vissuto:
dal saperci scelti da Dio, amati da Lui, e perciò chiamati a rivestirci di Cristo.
E infine, il Vangelo di Matteo.
Un dialogo asciutto, essenziale,
ma dentro, come in ogni parola evangelica,
si muove una tensione eterna.
C’è Pietro – quello che sbaglia spesso, ma non smette mai di amare –
che guarda Gesù negli occhi e, con tutta la verità che ha, gli dice:
“Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito.
Che cosa dunque ne avremo?”
È la domanda di chi ha giocato la vita su una promessa.
Di chi ha lasciato la riva,
ma la barca si allontana e la terra promessa ancora non si vede.
È la domanda di ogni discepolo,
quando la sequela diventa asciutta, esigente, scomoda,
quando la gioia cede il posto alla fatica,
quando l’amore non basta più a spiegare tutto.
Che ne sarà di noi, Signore?
Dei nostri affetti, delle nostre case,
delle cose buone che abbiamo lasciato indietro per Te?
E Gesù risponde.
Ma – come sempre – non risponde davvero.
Almeno, non come ci aspetteremmo.
Non fa calcoli, non mostra ricompense precise,
non traccia un contratto.
Parla invece la lingua del Regno:
una lingua che mescola il paradosso alla promessa,
la perdita alla fecondità.
“Chi avrà lasciato tutto per me,
riceverà cento volte tanto…
e la vita eterna.”
Centuplo.
Ma non in banca.
Centuplo in legami,
in incontri,
in lacrime condivise e pane spezzato.
Centuplo nel cuore che si dilata
quando smette di voler possedere
e impara, finalmente, ad accogliere.
Perché è così che funziona con Dio:
chi perde, trova.
Chi lascia, riceve.
Chi fa spazio, viene riempito.
Ma con misure che non sono le nostre.
Con tempi che non possiamo decidere.
Con doni che, spesso, non riconosciamo subito come tali.
E dentro questo Vangelo, si colloca San Benedetto.
Non come un commentatore, ma come un testimone.
Un uomo che ha preso sul serio le parole di Gesù
e ha fatto della rinuncia una casa abitabile.
Ha lasciato onori, carriera, sicurezza.
Non per amare l’idea di Dio,
ma per vivere con Dio e per Dio,
nella carne dei giorni, nella polvere del lavoro,
nel canto dell’ufficio divino, nel volto dei fratelli.
Ha lasciato tutto, ma non è scappato.
Ha fondato.
Ha costruito.
Ha raccolto uomini dispersi e ha detto loro:
“Venite, viviamo insieme qualcosa di più grande di noi.”
E ha insegnato che perdere tutto può voler dire ritrovare il senso.
Che lasciare il mondo può voler dire riscattarlo.
Benedetto ha creduto davvero che il “meno” potesse contenere Dio.
Meno parole, e più ascolto.
Meno oggetti, e più tempo.
Meno sé, e più fraternità.
Ha creduto che la regola non fosse una prigione,
ma una forma di libertà.
Che la ripetizione fosse preghiera.
Che il silenzio potesse guarire.
Che la stabilità potesse redimere un mondo errante.
E oggi ci interroga:
cosa siamo disposti a lasciare,
non per punirci,
ma per aprirci?
Cosa abbiamo il coraggio di perdere,
non per svuotarci,
ma per fare spazio a Dio?
La Regola non è solo un’antica sapienza, ma una bussola per disertori dell’umano.
Ci ordina un’altra economia: quella del cuore.
Pregare e lavorare, sì—ma perché il mattone sia sollevato con rispetto,
e il salmo cantato con una gola che non dimentica la sete di chi fugge dalle bombe.
La Regola ci chiede di intrecciare le mani e le ginocchia:
di costruire e di inginocchiarci.
Di produrre senza sfruttare, di servire senza calcolare.
Allora convertiamo gli arsenali in ospedali,
gli utili di guerra in borse di studio,
i bunker in biblioteche.
Facciamolo ora—non per idealismo,
ma perché ogni ritardo ci rende complici.
Complici del fuoco che brucia i villaggi,
complici dell’applauso in Borsa quando un conflitto si allunga.
Complici del marmo freddo delle coscienze che scorrono i notiziari
senza lasciare che una sola immagine trapassi la pelle.
Benedetto ci guarda.
Non come un’icona ingiallita dal tempo,
ma come un testimone che con il dito tocca le ferite del mondo
e ne dice il nome senza paura: guerra, idolatria del profitto, viltà politica.
E se noi tacessimo ancora una volta,
sarebbero le pietre dei chiostri a gridare,
a dire che non è il cielo a tradire l’uomo
ma è l’uomo a tradire se stesso,
ogni volta che preferisce un’esplosione di morte al pane spezzato che è vita.
Per questo, sull’altare della festa di Benedetto,
non stendiamo fiori, ma un appello accorato.
Un grido a chi compra armi invece di pane,
a chi brinda quando un titolo “difesa” sale in borsa,
a noi stessi – che ci siamo abituati a scivolare sulle notizie
come pioggia su pietra.
Se l’Europa tollera ancora campi incendiati e sirene notturne,
è perché qualcuno ha deciso che il sangue rende più del grano.
Se il Sud del mondo conta bambini gonfi di fame
mentre nei summit si sfoggiano cravatte di seta,
è perché si investe nella morte come in un titolo sicuro.
Benedetto griderebbe.
Direbbe che ogni missile è un’eresia contro l’uomo,
che ogni bilancio militare approvato
è un atto di apostasia civile.
Ai governi direbbe:
avete violato la Regola del vivere – quella vera,
che mette l’altro al centro
e il denaro fuori dal tempio.
Agli azionisti dell’industria bellica direbbe:
state falsificando il Vangelo.
State trasformando il ferro dell’aratro
in schegge per dilaniare innocenti.
E noi?
Noi non possiamo cavarcela con un sospiro devoto.
È tempo di sangue freddo e lingua di fuoco.
Di chiamare i droni con il loro nome: fucilazioni telecomandate.
Di dire che “danni collaterali” vuol dire bambini senza volto.
Di urlare che una spesa per la difesa
più alta di quella per scuola e sanità
non è sicurezza. È suicidio collettivo.
E tu Benedetto, Padre di pace e Custode del silenzio,
insegnaci l’arte di perdere per trovare l’essenziale.
Rendici artigiani di umanità, fedeli alla Regola dell’amore.
Dona pace all’Europa: fa’ che ritorni alle sue radici,
radici di pace, nutrite di giustizia,
fondate sulla solidarietà e sull’amore.
Sostienila con la tua intercessione,
perché, guarita nel cuore,
possa generare pace per un’umanità stanca e inquieta.
Solennità di San Benedetto – Abbazia di Montecassino/ 11 Luglio 2025