Le ultime tappe del viaggio di Marco Cavallo hanno condotto il cavallo azzurro a Brindisi e Bari, due porti strategici del Sud Italia affacciati sull’Adriatico e rivolti verso l’Albania. Da queste sponde, l’Italia sta sperimentando l’esternalizzazione delle frontiere per conto di un’Unione Europea sempre meno sovranazionale e sempre più pericolosamente piegata ai desideri e alle costose stravaganze delle frange etno-nazionaliste e di estrema destra, in questo caso esportando un modello di detenzione amministrativa che, negli ultimi decenni, ha già dimostrato il proprio fallimento economico, umano, ambientale, sociale e culturale.
A Gjadër e Shëngjin, in Albania, sorgono infatti i nuovi centri di detenzione ispirati al sistema, già rovinoso, dei CPR italiani: avamposti di un’Europa che detiene e respinge prima di accogliere, che esternalizza la propria coscienza insieme alle promesse identitarie fondate sull’esclusione e sulla reclusione, eludendo il principio stesso dello stato di diritto.

Vista dall’alto del centro di detenzione per migranti di Gjadër, provincia di Lezhë, nord dell’Albania. Foto: Nicolas Lesenfants Ramos.
Fermarsi a Bari, nel giorno dedicato alla salute mentale, assume così un valore profondamente simbolico e politico: è un incontro ai margini dell’esclusione, là dove la promessa di libertà si scontra con il meccanismo della reclusione e con la continua evocazione del respingimento. Mentre il cavallo azzurro approda scorge il mare delle coste pugliesi, porta con sé, nel suo fragile corpo di legno, le voci raccolte lungo il viaggio e i sogni delle persone in movimento, di quelle recluse, di quelle che creano intorno al suo passaggio o cavalcano nel suo solco continuando a credere che l’immaginazione possa ancora abbattere i muri che la politica costruisce e alimenta.
Un corteo al galoppo che rompe il silenzio
A Bari, il corteo di Marco Cavallo parte in silenzio, ma la sua presenza è dirompente. È una ‘primavera della mente che entra senza bussare’ e, nell’uscire allo scoperto, esplode, rompendo i tappi della repressione, della retorica plastica e delle paure forzatamente introiettate che ancora creano sacche di marginalità e isolamento sociale.
Non è un caso che la marcia parta dal piazzale antistante la sede principale dell’università, ovvero un’altra “istituzione totale”, oggi segnata da un diffuso malessere sociale, in cui pressione, isolamento e competizione esasperata generano allarmanti livelli di disagio, soprattutto tra la popolazione giovanile e il personale, tanto accademico quanto amministrativo e dirigenziale. Secondo dati diffusi dall’Istat – Istituto Nazionale di Statistica e analisi riportate dall’agenzia stampa ANSA, in Italia un terzo degli studenti universitari soffre di ansia, e oltre un quarto manifesta sintomi depressivi. Uno studio internazionale (“Exploring mental health of Italian college students: a systematic review and meta-analysis”, giugno 2025) stima inoltre che il rischio suicidario tra gli studenti italiani sia intorno al 7%.
La salute mentale dovrebbe occupare un posto centrale nelle politiche giovanili, come ha ricordato anche il rappresentante delle studentesse e degli studenti, intervenuto in piazza a Bari durante la manifestazione, Valerio Fresa, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale, contestualmente alla marcia di Marco Cavallo.
Colui o colei che vengono etichettati/e come “matti” o “matte”, nell’interpretazione basagliana, vengono resi/e così diversi/e da apparire alieni/e, esclusi/e persino dal ruolo di nemico/a che, invece, assicurerebbe un’identità maggiormente definita e parte integrante della società. Allo stesso modo, la persona giovane che cerca di formare la propria identità in una società ferocemente competitiva rischia in tale concezione di essere percepita come estranea, fino a essere respinta attraverso la continua idealizzazione della migrazione come unica via possibile, quasi fosse necessario liberarsi della potenziale diversità delle persone in fase di crescita in contesti che rifiutano di accogliere i processi e gli esiti di tale cambiamento.
L’emigrazione giovanile è infatti in costante crescita, soprattutto nel Sud Italia: tra il 2013 e il 2022, la Puglia ha registrato uno dei tassi più alti di emigrazione di giovani laureati (25-34 anni), raggiungendo le cifre allarmanti di una persona emigrata ogni mille abitanti, tenendo conto solo dei dati statisticamente rilevabili e senza includere i/le giovani in mobilità.
Il matto, così come la persona giovane, è dunque l’altro da sé, colui che deve restare altrove, invisibile, per permettere alle classi dominanti di difendere la fragile illusione di una normalità chiamata “società”. Lo stesso meccanismo di esclusione e rimozione si ripete oggi nei CPR, centri di detenzione amministrativa in cui persone senza documenti, anziché poter condividere le proprie storie e il proprio potenziale, vengono rinchiuse in nome della sicurezza: luoghi che ripropongono, sotto nuove forme, la logica dei manicomi.
L’incontro con la città tra incredulità e speranza
Il passaggio di Marco Cavallo per le strade di Bari suscita curiosità, stupore e talvolta derisione. All’improvviso, dietro un angolo, se ne intravede soltanto un frammento; poi il cavallo azzurro si rivela interamente, e il turchese del suo corpo ligneo si accende di una luce impossibile da ignorare o sfuggire con lo sguardo.
«Ma chi è quello? Ma libera pure noi?» – ironizza a voce alta una ragazza uscendo da un negozio. La sua battuta canzonatoria attira altri sguardi, altre persone di passaggio, più o meno curiose. È proprio in quell’istante che si manifesta la forza dell’arte pubblica: l’ironia diventa partecipazione, lo scherno si trasforma in domanda. «Da che cosa abbiamo bisogno di essere liberati?», chiede un uomo uscendo dal suo negozio per fermarsi a osservare il passaggio di Marco Cavallo accanto alla ‘Cavallina terrona’ creata a Latiano (BR) nel 2008.
L’eredità della legge 180 quale bene comune e percorso trasformativo
La campagna #180benecomune che ha l’obiettivo di difendere la ‘legge che ci rende umani per restare umani’, promossa dal Forum Salute Mentale con la partecipazione di centinaia di sigle da tutto il territorio nazionale, richiama proprio questo spirito trasformativo. La legge 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, pur essendo passata alla storia in tal modo, in realtà non è banalmente la ‘norma che ha chiuso i manicomi’, come viene continuamente ricordato in occasione di ogni uscita di Marco Cavallo, ma è un vero un presidio di civiltà che ha dato avvio a un percorso ancora lungi dall’essere concluso e che prevede un cambiamento profondo dell’approccio alla salute così come alla sanità pubblica.
Si tratta di un percorso culturale, e non soltanto di un esito legislativo, che affronta in modo esteso, come mai prima di allora, la dimensione dei diritti umani, il riconoscimento dell’altro e le possibilità di convivenza con la diversità, dentro e fuori di noi.
Oggi, mentre si tenta di ridimensionarne l’eredità e i CPR rappresentano l’inasprimento delle politiche pubbliche sotto forma di istituzioni di segregazione e di violenza sociale, riaffermare quello spirito è più urgente che mai: la dignità umana non conosce confini.
In tale ottica, ogni tappa del viaggio di Marco Cavallo, che ha attraversato la penisola nel corso dell’ultimo mese, è stata costruita attraverso percorsi di dialogo con le comunità locali, intrecciando musica, arte, immagini, incontri con le istituzioni locali, documentazione giornalistica, dibattiti e performance teatrali.
Le voci di Bari e le testimonianze dal campo
Durante l’incontro finale del 10 ottobre, lo psichiatra Claudio Minervini del Centro Sperimentale Pubblico per lo Studio e la Ricerca sulla Salute Mentale Comunitaria “Marco Cavallo” di Latiano (BR) ha ricordato le origini di Marco Cavallo, nato nel 1973 all’interno del manicomio di San Giovanni a Trieste, sotto la direzione di Franco Basaglia. «Il cavallo blu – racconta Minervini – nacque dal sogno di una persona ricoverata che lo disegnò con la pancia colma di desideri. C’era chi vi mise un fiasco di vino, chi un orologio perduto, chi il desiderio di rivedere il proprio bambino dato che all’epoca si poteva essere detenuti in un manicomio per il solo fatto di essere ragazze madri. In pochissimo tempo, Marco Cavallo divenne così il simbolo della liberazione collettiva: quando riuscì a sfondare i cancelli del manicomio, furono i sogni, non solo le persone, a uscire all’aria aperta e a rivedere il cielo fino a perdercisi.»
Oggi, quel gesto si ripete idealmente davanti ad altri cancelli ovvero quelli dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), dove uomini e donne vengono rinchiusi per il supposto ‘reato’ di non avere i documenti in regola senza poter accedere neanche a una procedura processuale né poter conoscere il proprio destino.
Lo psichiatra Filippo Cantalice, membro del comitato direttivo nazionale dell’associazione Psichiatria Democratica, racconta l’accesso negato al CPR di Bari Palese, in viale Europa: «Solo parlamentari e consiglieri regionali possono accedervi. Noi, nonostante l’autorizzazione firmata, siamo stati respinti. Ma ciò che è invisibile deve diventare visibile: i CPR sono strutturati lungo corridoi infiniti, a metà tra manicomio e carcere, luoghi in cui la sofferenza è resa sistemica e l’incuria raggiunge livelli estremi di invivibilità».
Cantalice ricorda come Basaglia, a Gorizia, avesse capito con chiarezza fino a che punto, nonostante i migliori sforzi e tentativi da parte di esperti e professionisti, un manicomio non potesse in alcun modo essere “umanizzato”, ma soltanto essere chiuso. «Lo stesso vale per questi lager moderni. Non si tratta di riformarli, ma di abolirli.»
Tra salute mentale e politiche migratorie: una stessa logica di segregazione
Il legame tra i manicomi di ieri e i centri di detenzione di oggi non è solo simbolico. Entrambi nascono da un medesimo impulso: isolare ciò che la parte conformista della società ritiene deviante non vuole vedere. Che si tratti di disagio mentale, povertà o percorsi migratori, il meccanismo è lo stesso: spostare il problema altrove, confinandolo dietro muri fisici e burocratici, ai margini delle città e spesso in luoghi alieni come reso evidente dalle strutture attraversate dal viaggio di Marco Cavallo a Brindisi e a Bari, così come nelle tappe precedenti. E se ieri i manicomi servivano a proteggere la società dalle proprie paure, oggi la detenzione amministrativa ne riproduce la logica con altri nomi e altri corpi fabbricando terrore laddove potrebbe non essercene e dove, anzi, le persone sono necessarie per ricomporre un tessuto sociale vivente come nel caso dell’Italia meridionale esemplificato dai progetti di accoglienza diffusa realizzati lungo la dorsale ionica in Calabria, tanto da essere rinominata per molti anni “Dorsale dell’Ospitalità”, e studiati a fondo in tutto il mondo. La legge 180 aveva aperto una breccia nella cultura della segregazione così come l’attivazione dei progetti SPRAR, poi SAI, aveva fatto per l’accoglienza delle persone migranti e rifugiate, ma ora quelle breccie rischiano di richiudersi.
E dopo, cosa farà Marco Cavallo?
Sui muri del Centro Sperimentale “Marco Cavallo” di Latiano (Brindisi), una scritta su una foto storica recita: «Cosa farà Marco Cavallo quando sarà finito?»
Oggi, la domanda calza a pennello e ne genera molte altre:
Attraverserà di nuovo l’Italia a ritroso, per ricucire le ferite sociali che ha incontrato?
Porterà con sé le proposte, le speranze, i desideri raccolti lungo la strada?
O, forse, riuscirà a varcare nuovi cancelli, a partire da quelli extraterritoriali di Gjadër e Shëngjin, e ad attraversare l’Adriatico, simbolicamente, per oltrepassare anche i confini della mente e della politica di detenzione?
L’ultima corsa del cavallo azzurro
Fino alla fine, Marco Cavallo è rimasto fedele al suo destino: quello di unire ciò che il potere divide, di rendere visibile ciò che è nascosto.
Nel giorno della Giornata mondiale della salute mentale, il suo arrivo a Bari chiude un percorso iniziato a Trieste il 6 settembre, nei luoghi dove Basaglia aveva insegnato al mondo intero che «da vicino nessuno è normale» e che quella che chiamiamo “normalità” altro non è che un’illusione dalla quale guardarsi bene se si vuole realmente essere – e, soprattutto, restare – umani.
Da Gradisca d’Isonzo a Milano, da Ponte Galeria a Palazzo San Gervasio, per oltre un mese il cavallo azzurro ha attraversato l’Italia dei confini e delle paure, chiedendo la chiusura dei CPR e il ritorno a una cultura della cura, non della reclusione.
Marco Cavallo porta vicinanza, curiosità e coraggio. Ricorda che la malattia, ammesso che sia tale, non può essere curata attraverso l’esclusione, così come la mobilità umana non può essere governata attraverso la detenzione. Perché, come ci insegna ancora Basaglia, la libertà non può più essere un privilegio, ma essa stessa è terapia e orizzonte di crescita collettiva.