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Da Olivetti a Repubblica, storia delle coperture del genocidio in Palestina

Dopo l’articolo sui militari israeliani in licenza “premio” nelle Marche sotto la protezione della Digos, proseguiamo il nostro excursus sul ruolo dell’Italia in appoggio ai vari governi sionisti avvicendatisi a Tel Aviv, citando esempi eccellenti e testimonianze dirette.

Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo monitorato quasi tutti i “Venerdì”, supplemento settimanale di Repubblica, senza trovare traccia alcuna di un qualche approfondimento sulla tragedia in corso a Gaza, né tantomeno abbiamo mai letto il termine genocidio, tratto dal linguaggio giuridico internazionale; al contrario, nel secondo numero di agosto, (titolo di copertina “Lontano da Gaza”) troviamo paradossalmente interviste tendenzialmente giustificatorie e accondiscendenti a militari israeliani in drop-out da esecuzioni sommarie a donne e bambini, in cerca di sballo e oblio nell’ormai più che turisticizzata Himalaya indiana. Qui i giovani militari israeliani, tra uno spinello e un rave-party inondato di alcool, si “confessano” di fronte alle due inviate del gruppo “Repubblica” esprimendo il proprio dolore e la fatica di vivere il conflitto. Al di là di qualche critica a Netanyahu, soprattutto per la sua politica fallimentare nel rilascio degli ostaggi, non si intravedono tuttavia cenni di consapevolezza sulla gravità dello sterminio in atto e della pulizia etnica, nonché di ciò che sta avvenendo in questi giorni in termini di vera e propria deportazione di intere popolazioni inermi e affamate.  Nessun cenno alla prossima sfida tragica al popolo palestinese, innescata già da parecchi anni in Cisgiordania, dove ormai risiedono quasi un milione di coloni illegali: solo il dolore, il disincanto, la voglia di dimenticare e voltare pagina, forse per esorcizzare il pericolo dietro l’angolo di una chiamata d’accusa di fronte alla Corte Penale Internazionale.

L’unica vera consapevolezza che viene messa in risalto nell’articolo è il totale disincanto rispetto all’illusione di Oslo “del due popoli per due Stati”. Vediamo allora come si costruisce negli anni questo intreccio tra comunicazione giornalistica e connivenze con i governi sionisti, che in questo caso riguarda la proprietà, di “Repubblica” ex-gruppo Olivetti, oggi GEDI, che detta la linea editoriale.

Qui però la religione c’entra poco o nulla, ma entra in gioco, invece, il concetto di lobby e di centri di potere, le loro alleanze e appunto le connivenze. Adriano Olivetti proveniva infatti da una lunga tradizione di famiglie ebraiche tendenzialmente non osservanti, ma che durante le leggi razziali del ’38 si distinsero nella protezione di propri dipendenti ebrei. Adriano sposò Paola Levi, figlia dell’illustre scienziato ebreo Giuseppe Levi (che poi fu mentore anche di Rita Levi-Montalcini). Paola a sua volta era sorella di Natalia Ginzburg, scrittrice e moglie di Leone Ginzburg, noto intellettuale ebreo. Questo matrimonio legò Olivetti a una delle famiglie intellettuali ebraiche più influenti del Novecento italiano. Antifascismo e protezione di ebrei e dissidenti furono la nota distintiva non solo di Adriano Olivetti, ma di tutto il gruppo intellettuale che si coagulava intorno alle prestigiose edizioni di Comunità.

Il modello improntato alla responsabilità sociale d’impresa, un concetto riafferrato anche oggi, sebbene in modo ipocrita, da molte aziende italiane e alla crescita del territorio dove sorgevano le fabbriche Olivetti fu ripreso, ma solo molto parzialmente,  da un altro esponente di una famiglia ebraica del nord, Carlo De Benedetti. La sua ascesa in azienda avvenne tra il 1970 e il 1978, ma la sua visione prettamente finanziaria e speculativa non fece altro che accelerare il processo di decadenza del fiore all’occhiello dell’elettronica italiana e del mondo. Il passaggio cruciale dall’analogico al digitale, che genialmente intuì Adriano Olivetti, affidandone lo sviluppo all’ingegnere Mario Tchou, interpretato dagli Stati Uniti e in particolare dall’IBM, come un grosso rischio al predominio USA nel settore dell’elaborazione dati, fu infatti interrotto dalle morti misteriose di entrambi questi personaggi-chiave.

Proprio in questi anni, nel passaggio cruciale verso la decadenza del gruppo multinazionale italiano e in concomitanza con i due conflitti bellici arabo-israeliani, quello del ’67 e quello del ’73, un testimone diretto presente a Ivrea in quel periodo ci racconta dell’esacerbarsi del rapporto di sudditanza verso Israele e dunque anche verso gli Stati Uniti. Tra il 1968 e il 1969, cioè nel pieno dello sforzo governativo israeliano nell’attuazione del proprio progetto di colonialismo di insediamento alla conquista delle nuove terre sottratte all’Egitto (18 nuove colonie in Sinai) e alla Siria, (numerosi insediamenti che ancora oggi si espandono tra le alture del Golan), diversi impiegati degli Olivetti usufruivano di permessi speciali per recarsi in quei territori per dare, in vari modi, un proprio contributo.

“Queste partenze – precisa il nostro testimone diretto – non venivano tanto sbandierate e tutto ciò che si riusciva a sapere era che partivano per Israele per dare una mano allo sviluppo dei kibbutz”. Proprio sulla base di questa storia passata Repubblica e il suo supplemento confondono i due termini, sionismo ed ebraismo, effettuando una sovrapposizione storicamente e moralmente sbagliata tra antisionismo e antisemitismo. Anche questo è un ruolo strategico di “facilitatore”, termine adottato da Francesca Albanese a proposito delle università italiane ed europee colluse con l’apparato bellico-industriale israeliano, nell’ambito della nuova guerra ibrida, fatta anche di droni, fake news e propaganda mediatica.

 

Stefano Bertoldi

Fonte
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