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Unica rotta la solidarietà

Nei mesi estivi la vicenda palestinese ha segnato un notevole salto di qualità. Il governo sionista ha dato alla sua azione genocida un orizzonte più preciso. Con l’annuncio e poi l’avvio delle operazioni di occupazione di Gaza City, si sono rese esplicite le intenzioni di Netanyahu (e di Trump): Gaza va finita di spianare e messa a disposizione di programmi israelo-americani ancora non del tutto chiari, mentre i palestinesi della Striscia dovranno “defluire” verso sud e lì verranno stipati in un grande campo di concentramento di pochi chilometri quadrati. Ad accogliere gli sfollati – o meglio chi di loro arriverà vivo – ci saranno “ben” quattro di quei punti di distribuzione del cibo che in verità, fino ad ora, alle folle stremate hanno servito più piombo che cibo. Dopo di che – si dice – ad ogni singolo gazawo verrà offerta la possibilità di un esodo volontario verso altri paesi. Si parla di un incentivo di 5 mila dollari e un anno di alloggio garantito a chi se ne va volontariamente. Analisti di vario genere sono scettici su questo progetto, sia per le forti resistenze che la popolazione di Gaza City avrà a spostarsi, sia per l’indisponibilità dei paesi che sono stati indicati come idonei ad ospitare gli esuli di Gaza (Libia, Etiopia, Indonesia, Sud Sudan, ecc). In aggiunta va considerato l’eclatante disaccordo del Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, che teme perdite troppo gravi nei combattimenti dentro Gaza City e teme di impantanarsi a tempo indefinito. D’altra parte, a tutte queste ragioni si oppone, per il momento, la determinazione che sembrano avere Netanyahu e i suoi ministri fanatico-suprematisti; mentre ancora c’è chi vorrebbe soppesare rischi e guadagni, già da settimane le devastanti bombe israeliane radono al suolo aree periferiche della città. Le pur brevissime pause “umanitarie” sono abolite e il 2 settembre si parlava già di 60 mila persone in fuga verso sud, cioè, con buona probabilità verso i nuovi campi di concentramento previsti dal governo sionista e dal suo alleato statunitense.

È verosimile che Netanyahu sia fiducioso che nel frattempo le bombe e la fame facciano già una “naturale” selezione delle persone da concentrazionare. In effetti, alcuni esperti sanitari hanno già detto che, se fino ad oggi contiamo solo qualche morto al giorno per denutrizione, potremmo presto passare ad una fase di escalation, in cui il combinato tra fame, denutrizione, deficit immunitari ed epidemie potrebbe portare i morti fino all’ipotetica cifra di mezzo milione. Del resto, le intenzioni del governo israeliano riguardo a Gaza si sono fatte ormai del tutto chiare: il lavoro cominciato a suo tempo con l’operazione “Piombo fuso” (2008-2009) va portato rapidamente a compimento, inseguendo il sogno distopico della “Grande Israele”. Quello stesso sogno distopico che spinge, contemporaneamente, verso l’accelerazione della pulizia etnica in Cisgiordania, verso una rinnovata pressione territoriale in Siria, Giordania e Libano e verso il confronto militare con l’Iran. In queste settimane Netanyahu e i suoi scalmanati ministri suprematisti discutono spesso di annettere formalmente un pezzo della Cisgiordania, ma l’annessione formale è di importanza relativa rispetto a ciò che quotidianamente viene fatto sul campo da coloni ed esercito: espulsioni di contadini dalle proprie case, terreni coltivabili dati alle fiamme, ulivi secolari sradicati a centinaia, arresti arbitrari, torture e assassini di inermi.

Il miraggio della “Grande Israele” fa fare questo ed altro, ma tale miraggio non è sorretto soltanto dalle pur focose spalle dei 700 mila coloni, con i loro inqualificabili rappresentanti nel governo (Ben Gvir Ministro della Sicurezza Nazionale e Bezalel Smotrich ministro delle Finanze). Lo stesso inferno di Gaza non avrebbe potuto prolungarsi ed approfondirsi in questo modo se non fosse stato sostenuto anche da interessi di ben altro peso. Ci dà ampia cognizione di ciò l’ormai noto Rapporto di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati (“Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”). Tale rapporto ricostruisce i grandi affari che alcuni importanti soggetti economici hanno potuto fare attorno al genocidio, spesso in continuità con gli affari che alcuni di questi soggetti già facevano nel contesto dell’occupazione coloniale della Palestina.

Il Rapporto, che approfondisce otto “settori chiave” dell’economia del genocidio, indica nel “complesso militar-industriale” “la spina dorsale dello Stato” israeliano, cioè uno stato che presenta un alto grado di integrazione tra potere politico, esercito, grande industria ad alta tecnologia e ricerca scientifica. “Tra il 2022 e il 2024, Israele è stato l’ottavo esportatore di armi al mondo. Le due più importanti aziende israeliane produttrici di armi – Ebit Systems” – azienda privata – “e la statale Israel Aereospace Industries – sono tra i primi 50 produttori di armi a livello globale. Dal 2023, Ebit ha collaborato strettamente alle operazioni militari israeliane, inserendo personale chiave nel Ministero della Difesa”.

D’altra parte, molto importanti per sostenere l’opera distruttiva a Gaza sono state anche “le partnership internazionali”. “Israele beneficia del più grande approvvigionamento della difesa mai realizzato, quello per il jet da combattimento F-35” (in cui è coinvolta anche l’italiana Leonardo spa). Se si considera che tra il 2023 e il 2024 la spesa militare è cresciuta del 65%, si può comprendere come l’industria di guerra israeliana (e statunitense) sia cointeressata al prolungarsi dell’inferno a Gaza. È molto interessante vedere chi ha coperto il forte deficit pubblico (6,8%) derivante dal vertiginoso aumento della spesa in armi. Il governo ha aumentato le emissioni di buoni del tesoro, usufruendo di un generoso e largo acquisto da parte di “alcune delle più importanti banche del mondo”, e di potentissime società di gestione patrimoniale statunitensi come Blackrock e Vanguard.  Per avere una minima idea di cosa stiamo parlando, diciamo che queste due società sommate ad una terza, la State Street, detengono un patrimonio 20 trilioni di dollari, cioè 10 volte l’intero PIL italiano e pari al PIL americano. La rivista Leadership Management li definisce “i veri padroni del mondo”. Questi veri padroni del mondo hanno ritenuto necessario tutelare con propri denari il meccanismo affaristico del genocidio dai rischi di un eccessivo deficit statale.

Tra gli altri sette settori chiave che Francesca Albanese documenta come fortemente cointeressati al prolungarsi dell’azione genocida in corso, è interessante segnalare quello della “Sorveglianza e carcerarietà”, cioè prodotti come telecamere a circuito chiuso, sorveglianza con droni, intelligenza artificiale e altri. Tutti strumenti già utilizzati nella repressione dei palestinesi prima del 7 ottobre 2023 e ancor più dopo quella data. A produrre questi strumenti di repressione sono le famose aziende ad alta tecnologia (start up) di cui Israele è capofila mondiale.

Dunque il miraggio della “Grande Israele”, ebrezza espansionistica di uno Stato intrinsecamente confessionale e militarista, viene oltremodo alimentato dagli interessi della parte più “moderna” del capitalismo israeliano, a sua volta intrecciato col grande capitale statunitense. In questo quadro, si colloca l’evidentissima complicità interessata dei paesi europei che di fronte al susseguirsi dei tragici eventi in Palestina balbettano invece che parlare. La UE è notoriamente il primo partner commerciale di Israele, rappresentando, nel 2024, il 32% del suo commercio totale, pari a 45 miliardi di euro, di cui 5 miliardi con l’Italia. Ma a fare grandi affari con Israele sono anche alcuni paesi del BRICS ed in modo particolare la Cina, a dispetto delle simpatie nutrite per quei paesi da alcuni ambienti interni al movimento per la Palestina. Le statistiche dicono che la Cina è il maggior esportatore ed il terzo importatore verso e da Israele. Particolarmente interessante è vedere come ha affrontato la questione “Contropiano”, rivista della Rete dei Comunisti, che ha recentemente pubblicato un articolo di Zhang Sheng,  ricercatore universitario di Istanbul, il quale tenta in qualche modo di “arrampicarsi sugli specchi” per poi dover ammettere che “la solidarietà politica con la Palestina e i legami economici con Israele creano una contraddizione nella politica estera cinese, e Pechino si è semplicemente dichiarata amica di entrambe le parti”, oltre a non aver ancora usato il termine “genocidio”.

Ed è proprio la parola “genocidio” che invece si è imposta come parola discriminante, al di sopra di ogni correttezza linguistica, nel segnalare la gravità di ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi, dell’enormità che quasi non riesce ad essere contenuta in nessuna parola. “Fermare il genocidio” è oggi la parola d’ordine che unisce, in tutto il mondo, enormi fiumi di persone anche molto diverse tra di loro, che si riversano nelle piazze, e in qualche caso scoprono o riscoprono l’impegno sociale diretto, nutrito dall’empatia verso una popolazione su cui sembra che si stia scaricando tutto il potenziale distruttivo accumulato nei secoli dall’umanità. Non è stato il 7 ottobre che ha permesso alla questione palestinese di tornare al centro dell’attenzione, come sostengono alcuni; al contrario è stato l’incredibile tempismo del governo iper-sionista, che in pochissimi giorni ha messo di fronte il mondo intero ad un inferno in terra. Da questo punto di vista, diviene secondario stabilire se l’azione del 7 ottobre sia stata o meno favorita dai servizi segreti israeliani, perché in ogni caso tale azione è stata oggettivamente utile a chi probabilmente voleva già scatenare l’inferno.

Siamo adesso ad un passaggio estremamente critico. Per andare avanti con l’operazione a Gaza City, Netanyahu ha richiamato 60 mila riservisti, in una fase in cui il rifiuto di indossare la divisa sta crescendo notevolmente, sia pure con motivazioni molto variegate. Allo stesso tempo, Israele è interessata da un ciclo di grandi manifestazioni e scioperi che chiedono trattative per il rilascio degli ostaggi. Sappiamo bene che la maggioranza di quei manifestanti non è contraria alla guerra, ma solo insofferente al suo prolungamento. Non siamo certo all’implosione interna dello Stato sionista, ma neanche a quella coesione nazionale a cui punta qualsiasi Stato che si prepara ad una difficile operazione militare. Sappiamo anche che ai bordi di queste manifestazioni sta agendo ed un po’ crescendo una composita minoranza anti-sionista ed antimilitarista. Significative le immagini di molti ragazzi che inequivocabilmente si sono qualificati con cartelli “stop al genocidio”. Altrettanto significativo è vedere uniti nel blocco anti-sionista cittadini ebrei e cittadini arabi.

In questo contesto tra pochi giorni salperà diretta verso Gaza la Global Sumud Flotilla, composta da decine di imbarcazioni, centinaia di attivisti e personalità varie. Come è noto, lo scopo della Flotilla è portare parecchie tonnellate di cibo per sostenere la popolazione di Gaza ormai in stato di denutrizione. Il governo israeliano si è affrettato a dire che tratterà i naviganti solidali al pari dei “terroristi”, cioè carcere duro e forse anche qualcosa di più. Certo a costoro non manca il ghigno! Tuttavia, non è obiettivamente un passaggio semplice, vista la presenza a bordo di centinaia di cittadini europei e di alcune persone note. Dal canto loro i portuali di varie città hanno annunciato che dai porti “non passerà più un chiodo” se succede una qualsiasi cosa alla Flotilla. Gli inviti alla mobilitazione diretta, in prima persona, si stanno moltiplicando. Stiamo dunque pronti. Con la Global Flotilla nel cuore.

Claudio Strambi

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